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di lei. Dei moti convulsi le attraversavano le braccia, le mani, ed ella le stirava, come presa da una convulsione. Era la prima volta che questo male la assaliva e io non sapeva bene che aiuto darle; presi la boccetta dei sali, le feci odorare dell’aceto, le tenni le mani, ma non ottenni nessun risultato. Un ignoto male pareva le torcesse, man mano, i nervi: si vedeva che ella combatteva contro esso, violentemente, che tentava reagire, ma che il male era più forte di lei. Teneva gli occhi socchiusi e le dita piegate quasi conficcate, con le unghie, nel palmo della mano; ma quando io la chiamavo, spesso, ella riapriva gli occhi, mi fissava con uno sguardo d’infinito amore e d’infinito dolore, due volte tese le braccia e mi strinse al petto, così strettamente, che parea volesse soffocarmi. Credete, che, ogni minuto, la mia confusione cresceva. Che fare, per calmarla? Era tardi e, certo, tutti dormivano in Cowes; d’altronde, accanto a lei, sul divano, io non osava di muovermi, per suonare il campanello, temendo che ella rotolasse per terra. Per momenti, ella parea si calmasse: il respiro diventava meno affannoso, gli occhi si chiudevano, le mani e le braccia ricadevano mollemente ed ella aveva l’aria di addormentarsi.

«Ma, a un tratto, una grande scossa la faceva sobbalzare; ella dava in un gemito straziante e la sua convulsione ricominciava. Potetti, in un intervallo, suonare il campanello e alla cameriera che era accorsa, dar l’ordine di far vestire il servo, che già dormiva, e di mandarlo a Cowes per riportare con sè un medico, o morto o vivo. Il male di Maria mi sembrava eccedere quello di una convulsione ordinaria. Ella aveva un morbo misterioso che l’affliggeva. Adesso, mi sentivo crescere nell’animo la disperazione, giacchè ella non mi rispondeva più, non mi sentiva più, mentre io le baciavo il bel volto bianco e i bei capelli neri. Chi