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vane gentiluomo romano, ed egli diceva che Rachele lo amava ancora, che se non aveva ancora pronunziato i voti solenni, ella avrebbe rinunziato al chiostro, per rientrare nella vita.

Ah, se per soli pochi minuti egli avesse potuto rivederla! Se egli avesse potuto dirle, col grido dell’amore, a cui nulla resiste: «Rachele, se io ti perdo, mi uccido!» egli era certo, certissimo, che il cuore di Rachele si sarebbe infranto, e che ella sarebbe stata novellamente sua. Ma come vederla? come, se giammai avrebbe potuto entrare in quel monastero delle sepolte vive? Se mai una sua lettera avrebbe potuto raggiungere la novizia? Ricorrere al vicario, era un disegno imprudente e sacrilego; almeno, sacrilego sarebbe stato giudicato da costui, visto che la vocazione di Rachele Cabib era ineluttabile, e visto che i conventi non ridanno volentieri al mondo le anime che hanno raccolte e serrate.

Pure, disperato, e sentendo che quei quindici giorni erano un tempo prezioso per guadagnare il premio del proprio amore, egli partì per Roma, avendo raccomandato a Rosa di ritornare, se fosse possibile, al convento di suor Orsola Benincasa, di ritentare l’assalto al cuore di Rachele Cabib. Ella lo promise, ed era, oramai, così devota alla causa di Ranieri Lambertini, che egli sapeva bene avrebbe mantenuto la promessa. E partì.

Egli apparteneva a una famiglia patrizia romana, che aveva molti rapporti nel mondo del clero a Roma, e quindi tentò parenti ed amici, per arrivare al suo scopo. Ricco, nobile com’era, appassionato e disperato anche, non pareva che grandissimi ostacoli dovessero opporsi al suo intento. Egli non parlò direttamente col vicario, ma trovò modo di aprire il suo cuore ad un prelato influentissimo, dicendogli tutta la sua dolorosa istoria, dicendogli per quale ragione Rachele Cabib era en-