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la mano tagliata. 273

Costui prese flemmaticamente il denaro che gli consegnò il conte Alimena e gli dette una ricevuta; poi, intascò la lettera chiusa e se ne andò, muto, salutando.

— A che ora è il convegno?

— Alle undici e mezzo. È lontano, però.

— Prenderemo un legno?

— Sì, ma a un certo punto lo lasceremo. Non bisogna mica giungere in carrozza, a una taverna di Druray Lane.

— Comprendo. Andiamo, Dick.

— Un momento. Vostra Grazia mi promette di esser padrone di sè stesso!

— Sì.

— Di tacere?

— Sì.

— Qualunque cosa ascolti?

— Qualunque.

— Qualunque cosa accada?

— Qualunque; prometto, in parola di onore.

— Bene, andiamo. — Suonavano le undici all’orologio dell’Albergo Piccadilly, quando il conte Roberto Alimena escì insieme col detective Dick Leslie. Appena fuori di casa, l’agente prese familiarmente a braccetto il giovane gentiluomo italiano e cominciò a parlargli concitatamente. Cammina vano un po’ a sghembo, come se già fossero ubbriachi: e si sorridevano stupidamente, coppia di oziosi beoni, di cui è continuo il passaggio nelle vie di Londra. Poco lontano da Piccadilly, Dick Leslie fischiò un cab, e nella piccola vettura chiusa andarono, taciturni, pensosi, presi dalle preoccupazioni dell’audace impresa che tentavano. Per qualche tempo la vettura passò per vie larghe, fulgidamente illuminate, piene ancora di gente, malgrado l’ora avanzata; poi rotolò sordamente sopra un ponte e penetrò in vie più anguste, più buie e più solitarie. A un tratto,