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di gin dalle loro borracce: ma il suicida non rinvenne. Poco lontano, era una casetta per gli asfittici, ma i barcaiuoli la trovarono chiusa: era domenica e il custode aveva creduto di festeggiarla, come ogni buon inglese. Interdetti, seccati di quel carico, malgrado che ad ogni suicida salvato essi guadagnassero una bella somma, essi risalirono verso il ponte di Westminster e discesi a terra, portarono seco quell’uomo esanime. Subito si fermò della folla in quella bellissima strada che rasenta il palazzo di Sua Maestà Britannica; e una voce si ripetè, fra la folla:

— Un medico, un medico! —

Pareva che non ve ne fosse neppure uno tra la folla e intanto l’uomo giaceva per terra, sempre svenuto, pallido, tutto intriso di acqua. Il grido di soccorso si ripetè:

— Un medico, un medico! —

Un elegantissimo cab che si avanzava tutto nero e azzurro, con filetti di argento, con un bellissimo cavallo baio, si arrestò, a un tratto: e un signore schiuse le due porticine di cristallo dell’hansom, scendendone, sotto la pioggia.

— Ecco il medico, — disse una voce sottile e fischiante.

La folla si separò subito, per dare il passo all’uomo dell’arte. Costui era piccolo e deforme; sotto la preziosa pelliccia di volpe azzurra che si arrovesciava nel colletto e nei polsi, si vedeva una gobba molto prominente. Anche il viso di quel medico era bruttissimo: scialbo, con pochi peli radi e incolori sulle guance smunte e sulle labbra. Quello che più colpiva in lui, era lo sguardo: uno sguardo di occhi verdi, lucidi e limpidi come il cristallo verde: uno sguardo acuto e penetrante che pareva dissolvesse il mistero di qualunque anima. Egli si accostò al suicida e lo fissò, senza chinarsi su lui. Domandò, ai barcaiuoli: