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152 la mano tagliata.

nessuno si occupava se piovesse o no: e grandissimo era il movimento sulle rive del Tamigi, tutte coperte di edifici, di officine, di stabilimenti industriali. Il Tamigi scorreva nero e minaccioso, pieno di detriti di carbone, di olio, di immondizie, quali la colossale metropoli, di tre milioni d’abitanti, poteva rigettare nel suo fiume. Quelle acque brune e lucide erano attraversate da imbarcazioni di ogni sorta, da vaporetti, da lance, da zattere cariche di legna e di carbone. Strani oggetti venivano a galla, su quelle onde nere come quelle dello Stige; e l’affogare lì dentro, doveva fare più ribrezzo e più paura che in qualunque altro fiume. Eppure ogni giorno, vi sono otto o dieci inglesi che si buttano nel Tamigi: beninteso, alcuni vi cadono nello stato di ubbriachezza. E varie inglesi, anche, vi cadono ogni giorno, cercandovi la morte e il riposo.

Giusto, in quell’ora delle quattro, i due barcaiuoli che erano in vigilanza all’altezza del ponte di Westminster, videro qualche cosa di nero agitarsi sulla spalletta del ponte e cadere con un tonfo sordo, come una balla di roba, nel fiume. Erano troppo avvezzi a questi casi, i barcaiuoli del ponte di Westminster, per meravigliarsene e fecero forza di remi verso il posto dove si era gittato il suicida. Il palombaro che vegliava sempre con loro, si gittò nello stesso gorgo, con un’abilità straordinaria, e risalì a galla, dopo un minuto, portandolo attaccato al suo corpo, avvinghiato, col gesto disperato dei morenti, che non vogliono più morire. Era un uomo, ancora giovine e robusto, ma con un viso consunto evidentemente dai dolori e dalle privazioni; vestiva con pulizia, ma con panni logori da operaio caduto nella miseria. Non dava segno di vita, in fondo alla barca.

I barcaiuoli e il palombaro cercarono di farlo riscuotere, versandogli fra i denti stretti un poco