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ne qualche minuto, ancora, nella sua stanza, non volendo entrare al cospetto del Maestro insieme con suo padre.

Poi, decisasi, discese leggermente per le scale ed entrò nella stanzetta che serviva per ricevere e per pranzare, in casa Cabib.

Questa stanzetta era illuminata da un solo lume a petrolio su cui era collocato un modesto paralume di carta. Sicchè, salvo il tavolino su cui la luce batteva in pieno, la stanzetta restava in penombra.

Il Maestro era seduto nel vecchio seggiolone di Mosè Cabib e la piccola persona deforme e rattrappita si perdeva in quell’ampia seggiola. Teneva le mani sui bracciali di pelle nera e nella penombra sembravano bianche e rigide come quelle di un mostro. Malgrado la poca luce, si vedeva un volto veramente orribile, più che pallido, scialbo; con gli zigomi sporgenti e le mascelle prominenti; senza un pelo sulle labbra e con radi peli brizzolati e incolti, sulle guance; una bocca tagliata diritta, come una ferita netta netta, con le labbra sottili di un roseo che andava al cremisi; con una tastiera di denti grossi e giallastri; con una fronte sfuggente, su cui si ergeva una capigliatura bizzarra, di capelli quasi rossi, ma fini e incolti, anche essi, quindi intrigati come una boscaglia: e infine quegli occhi verdi, verdi, verdi come l’acqua verde, gelidi, fulminei talvolta e talvolta semplicemente vitrei. Il corpo era deforme: una gobba sulla spalla sinistra contorceva quel torace enorme su quelle gambe corte, sottili, ignobili. Era orribile.

L’espressione del suo viso non si distingueva bene. Rachele non lo guardò neppure e si appressò alla tavola: restò in piedi, guardando in aria, come se nulla vedesse. Mosè Cabib si era messo in un cantuccio, sopra una sedia e il capo era re-