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58 telegrafi dello stato


immergeva in una debolezza mortale, il fluido possente che un po’ di rame, un po’ d’acido solforico, un po’ di zinco fanno sviluppare, il fluido fortissimo che niuno ha ancora spiegato, la grande efficienza naturale, inesplicabile e grande come il calore, come la luce, la corrente elettrica, forza, volontà, pensiero, era ammalata, attaccata nella sua forza e nella sua potenza. La torcevano per dolore, certe convulsioni strane, per cui le macchine parea dovessero spezzarsi, sotto il suo impeto: essa batteva sul metallo certi colpi duri, secchi, ripetuti fittamente, come bussasse per aiuto, come se chiamasse al soccorso: e nell’abbattimento che susseguiva questi impeti, il coltellino della macchina aveva un tremolìo indistinto, un movimento così lieve che pareva un soffio.

— Direttrice, direttrice, — diceva lamentosamente Annina Pescara, — certo Bologna mi sta dicendo qualche cosa, ma i segni non arrivano.

— Rendete sensibile la macchina. —

Si smontava la macchina, si regolava più delicatamente il sistema di orologeria, si accorciava la spirale per farle sentire meglio la corrente, si accostava il coltellino a un capello dalla carta. La macchina, così regolata, pareva uno di quei raffinati temperamenti umani, in cui la vibrazione è immediata, in cui i nervi frizzano a qualunque piccolissima sensazione: l’apparato era sensibile. Allora, pallidamente, qualche segno compariva, parole spezzate, frasi monche: pareva un delirio fioco ed indistinto, di persona morente. E il guasto era dichiarato, per non avere responsabilità:

— Vi è dispersione su Bologna. —