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spesa. In casa Jovine, dalla simpatica zoppina, vi era ricevimento, quel mercoledì; essendo l’onomastico della nonna, vi si trovavano le belle sorelle Altifreda, vi arrivarono le Galanti, per un pezzo si scherzò sull’eruzione, sul rombo, sul terremoto, sulla pioggia di cenere, mentre giravano i gelati e giungevano ancora dei mazzi di fiori; ma a poco a poco la conversazione cadde, tutti prestavano orecchio, il tremolìo dei vetri urtava i nervi della zoppina, quasi quasi ella tremava al loro tremito; la società si diradò, tentando qualche ultimo scherzo, ma di mala voglia, ognuno desiderava ritrovarsi alla casa propria. Maria Jovine, quando tutti furono andati via, andò a mettersi a letto, col capo tra i cuscini, per non sentire il tremore dei cristalli. A tutte le persone, uomini d’affari, impiegati, lavoranti, oziosi, pareva venuta una grande furia di tornarsene a casa; per la strada si salutavano frettolosamente, si scambiavano qualche notizia breve breve, si lasciavano, con un cenno di addio, come se un grave affare li chiamasse altrove. Così gli uffici pubblici e i privati, quali volontariamente, quali per forza, rimasero deserti.

Il pomeriggio pareva lunghissimo, solo venendo la notte si poteva giudicare dei progressi della eruzione: circolavano cattive notizie, due nuove bocche s’erano aperte, i villaggi di Cercola e di Sant’Anastasia erano perduti, v’erano delle vittime imprudenti che la sera prima avevano voluto salire sul Vesuvio. Per la via Forcella, si mormorava, erano arrivate delle barelle coperte, dov’erano avvolti nelle lenzuola certi corpi umani terribilmente usti, ma viventi ancora, agoniz-