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156 nella lava


dove erano riunite Eugenia Malagrida, la Jovine, Enrichetta Caputo, dopo un grande sbaciucchiamento, fra i saluti e gli abbracci, ella sedette un momento, tanto per poter consegnare Arturo Ajello alle Caputo, madre e figlia: ma costui per non aver l’aria di niente, si mise a parlare con Eugenia Malagrida, la grassona goffa, sul cui viso lucido una grande soddisfazione si diffuse, tanto era difficile che un giovanotto si occupasse di lei. Dopo dieci minuti, non potendo reggere, Matilde Cipullo si levò su, andò via, portandosi Giovannino Pasanisi, cercando dappertutto le Cafaro. Le Sanges si rodevano, esse avevano litigato con la Cipullo da quando ella era zitella, giammai ella aveva voluto far la pace con loro, le trovava troppo ineducate, troppo straccione, le sarebbe stato impossibile maritarle mai.

Le Cafaro erano sedute in spalliera, sotto la statua di Gian Battista Vico, tutte vestite di mussolina leggera bianca, degli abiti elegantissimi, un po’ troppo leggeri, forse, ma su cui certi grandi cappelli neri, piumati, un po’ strani, stavano benissimo. E avevano tutte le singolari cose che le zitelle mature, molto ricche si permettono: la catena e l’orologio d’oro, gli orecchini di brillanti, i guanti di camoscio troppo alti sulle braccia, sempre un po’ di rosso alle labbra e quell’aria di disinvoltura troppo spiccata. Una sola di esse discorreva con Peppino Sarnelli, un avvocato che guadagnava molti quattrini, ma che non aveva un soldo di capitale; e lui le faceva la corte, dolcemente, senza troppa ostinazione, innamorato forse, ma non audace, e Teresina Cafaro l’accettava, non si sa mai, consolata