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146 nella lava


odorifere; per tutto un soffio tepido, carezzevole che pareva l’alito di persona amata. E dalle otto, per le vie di Toledo, di Chiaia, del Chiatamone, fra le vetrine tutte fulgide di gioielli, di ventagli piumati, di cappellini eleganti o lungo la riva del mare poetico su cui sfrusciavano i platani del Chiatamone, era un lento movimento di gente, che si avviava alla Villa. Due file di carrozze scendevano in giù, come due fiotti rotolanti; il tram carico, ogni minuto passava correndo e fischiando attraverso piazza San Ferdinando, portando sempre gente alla Villa; ma i marciapiedi erano fitti fitti di pedoni che mollemente, in quella sera di domenica, se ne andavano al grande ritrovo serotino napoletano.

Era una sfilata continua di abiti bianchi, o chiarissimi, su cui erano stati gittati, talvolta, più per grazia, che per ripararsi dal fresco autunnale, certi scialletti di lana azzurra o di un roseo molto tenero; una sfilata continua di visetti freschi, giovanili, con la frangetta di capelli bruni o di capelli biondi tagliata sulla fronte, in linea retta, come i cavalieri che si vedono nei quadri del Giorgione, con la treccia grossa raccolta sulla nuca, attraversata da uno spillone di tartaruga. Dietro venivano le mamme, i padri, le zie, le vecchie cugine, gli accompagnatori e le accompagnatrici rassegnate e pazienti, che trascinavano il passo: ma veramente la serata domenicale alla Villa, apparteneva alla gioventù, alle ragazze e ai giovanotti a cui basta un po’ di cielo sereno, un albero, una nota musicale allegra o triste, un’occhiata fugace, un piccolo sorriso, per essere profondamente felici.