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138 nella lava


piedi: andò a bere un bicchiere di acqua solfurea, in cui non lasciò mettere neppure il limone, per pagarlo solo due centesimi. Ma nessuno più si occupava di lui: una voce era corsa:

— Le Altifreda, le Altifreda! —

Tutte si piegarono a guardare verso la spiaggia, su quella grande zona di arena scura che divideva il mare da quella verdezza ombrosa che è la Villa. La curiosità scoppiava, vivacissima. Le Altifreda erano due belle e sdegnose ragazze: arrivavano in carrozza propria, a due cavalli, con la cameriera e la maestra di nuoto, il servitore che portava le sacche, le cinture di salvataggio, un paniere con la colazione. Vestite con un gusto eccezionale, ombreggiando le belle faccie sotto certi larghi cappelli originali, con una grazia fiera che incantava, esse attraversavano lo stabilimento, sempre a mezzogiorno, senza fermarvisi mai, dandosi il lusso di un camerino proprio, che le aspettava, non guardandosi intorno, parlando fra loro, come se il resto del mondo non esistesse. Nell’acqua esse avevano un costume di flanella ricamato tutto di rosso, le scarpette di paglia per non guastarsi i piedini, dei cappelloni eleganti; e si allontanavano, con la maestra di nuoto, ritornavano dopo un’ora di esercizio, tutte fresche e rosee.

Le altre ragazze dello stabilimento invidiavano, odiavano quelle antipatiche e superbiose Altifreda, che erano così ricche, così belle, così eleganti, così fiere: e ne inventavano delle terribili sul loro conto. Già, con le loro pretese, diceva Enrichetta Caputo, non trovereb-