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134 nella lava


pello disfatto e certe scarpaccie gialle di cuoio. Enrichetta restava sulla soglia, un po’ incerta, stringendo nelle mani una sacchetta di pelle, tutta sdrucita: le Galanti, che erano buonine, la chiamarono. Vi fu uno strepitoso baciucchiamento.

— Cercavo Eugenia Malagrida..., — disse, dopo, Enrichetta Caputo.

— È già entrata — rispose Riccarda Galanti.

— Eppure mi aveva detto che mi aspettava.... — mormorò Enrichetta.

Si guardarono, la madre e lei, un minuto, interdette. Povere come erano, una vedova, l’altra orfana di un capitano morto a Capua, nel 1860, da valoroso, stentando a vivere con la magra pensione, si attaccavano istintivamente alle ragazze ricche o meno povere, che Enrichetta aveva conosciute nel collegio, dove la munificenza governativa le aveva accordato un posto. Enrichetta viveva metà della sua vita in casa di Eugenia Malagrida, la grassona brutta e ricca, facendole da satellite, carezzandola, adulandola, pettinandola, vestendola, purchè costei, ogni tanto, la portasse a teatro, la invitasse a pranzo, la conducesse in carrozza.

La povertà, il desiderio di farsi vedere, per trovare marito, la inducevano a una esistenza umiliante che spesso, in solitudine, le traeva le lacrime dagli occhi. Assolutamente non poteva fare i bagni di mare, Enrichetta, non avendo quattrini e si avvinghiava disperatamente a Eugenia Malagrida, perchè la portasse seco. Ma dovevano venire a piedi, essa e sua madre, dal Padiglione del Divino Amore, nella vecchia Napoli,