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312 o giovannino o la morte

di non aver avuto figliuoli, si guardavano sorridendo con una lucentezza placida negli occhi. Al secondo piano, a sinistra, un’altra coppia felice si preparava per andare a messa: don Vincenzo Manetta, un vecchio secco, lungo e bianco, con un viso scarno e un naso da uccello, due fedine sottili bianche e due gambe magre come bastoni, don Vincenzo Manetta, cancelliere di tribunale in ritiro, rabbioso di essere in ritiro e innamorato della storia dell’antica Napoli, sino al punto da copiarne gli interi brani da certi documenti, credendosene poi l’autore: donna Elisabetta Manetta, buona donna che si era maritata assai tardi, a quarantacinque anni, e che aveva conservato un viso delicato ma ingiallito di zitella matura, e che si ostinava nell’abitudine di tingersi i capelli con la tintura Zempt, tanto che questi capelli variavano di tinte, ora color rosso cupo, ora marrone chiaro, ora violaceo scuro e generalmente verdastri, la tinta delle cupe erbe di pantano. E metodico, meticoloso, un po’ stizzito, don Vincenzo Manetta, col soprabito nero sino ai piedi, batteva la mazza in terra:

— Elisa, il sagrestano ha suonato due volte.

— Una, una — diceva pazientemente donna Elisa, infilando i mezzi guanti di reticella nera sulle mani grassotte, ma un po’ gialle.

— Elisa, vuoi perdere la messa?

— Cerco il rosario.