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l’albergo, nè, per quanto mi assicurarono, in nessuna altra locanda della città: tutto era stato requisito per gli ufficiali. I cavalli, morti di stanchezza, vennero legati nel cortile; Giacomo doveva attendere ad essi; io finalmente sbalzai a terra.

Mi feci accompagnare a piedi da un ragazzaccio nella via Santo Stefano al numero 147.


Si dovette camminare più volte su e giù nella strada, guardando all’alto delle porte, innanzi di distinguere nel barlume dei rari fanali il numero della casa. Se Remigio c’era, volevo fargli una improvvisata: le mie membra tremavano tutte d’impazienza e di desiderio, ma poteva essere a letto, poteva stare in compagnia di qualcuno, e, sebbene volessi ad ogni costo vederlo subito, pure mi sembrò di dover mandare il ragazzo avanti in esplorazione. Era furbo e capì al volo: doveva suonare, chiedere del tenente per una faccenda urgentissima, insistere perchè gli aprissero, salire, dirgli una fandonia qualunque, per esempio che un signore, del quale s’era scordato il nome e che alloggiava all’albergo della Torre di Londra, bramava, senza ritardo, avere notizie della sua salute. Il fanciullo nel venir fuori aveva da lasciare aperti l’uscio del quartiere e la porta di strada. Io mi nascosi sul fianco della casa, in un chiassuolo tra la via ed il fiume. Il fanciullo suonò. S’udì una voce rabbiosa dall’ultimo piano: