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cura di ammaestrarli; poichè colui il quale dovrà bastare, quando io non vi sia, a sopraintendere in mia vece, che altro debb‘egli sapere, se non quello, che so io medesimo? E se io sono atto a sopraintendere ai lavori, certo che quello che io mi so, potrò anche insegnarlo ad un altro. Ma perchè alcuno, diss’io, possa fare compiutamente le tue veci, non si richiederà innanzi a tutto che colui porti amore a te, e alle tue cose, perchè, senza di ciò, quale utilità potresti averne dalla scienza di qualsivoglia castaldo? Niuna per certo: ma io in prima mi studio d’insegnargli a portare amore a me, e alle mie cose. Ed in qual modo, dissi, puoi tu ammaestrare chiunque ti piace a divenirti amorevole? Col fargli parte, disse Iscomaco, di quel bene di cui gli Dei ne danno a noi larga copia. Questo adunque, dissi, vuoi tu dire, che quelli che partecipano dei tuoi beni ti si fanno amorevoli, e bramano di ricambiartene col recarti qualche vantaggio. Così è, o Socrate, perchè veggo che questo sì è il miglior mezzo di acquistarsi la benevolenza delle persone. Ma quando anche ti divenga alcuno benevolo, dissi, o Iscomaco, sarà egli pur questo un sufficiente castaldo? Non vedi tu siccome tutti gli uomini portano amore a se medesimi, tuttavia molti di loro niuna cura vogliono prendersi a procacciarsi quei beni, che pure vorrebbero avere? Ma io, disse Iscomaco, quelli che destino ad essere a