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388 | l'istoria del concilio di trento |
Cardinal di Mantova, per causa di chi la meglior occasione
era svanita: e si diede a pensare in che maniera s’averebbe
potuto rimettere in piedi. La corte, cosí per imitazione del suo
principe, come per trattarsi delli interessi suoi, continuava le
querele e mormorii contra li prelati del concilio, e piú di tutti
contra il medesimo cardinale, e contra Seripando e varmiense.
Scambievolmente li prelati in Trento, li spagnoli massime,
nelli congressi privati tra loro si querelavano del pontefice e
della corte: di quello, perché tenisse il concilio in servitú, al
quale doverebbe lasciar l’intiera disposizione di trattar e determinare tutte le cose senza ingerirsene; e nondimeno, oltre
che niente si propone se non quanto piace alli legati, quali
non fanno se non quello che è comandato da Roma, ancora
quando alcuna cosa è proposta e vi è un numero di settanta
vescovi conformi, nondimeno sono impediti sino dal poter
parlare. Che il concilio doverebbe esser libero ed esente da
ogni prevenzione, concorrenza e intercessione di qualunque
altra potestá; e nondimeno li vengono date le leggi di quello
che debbe trattare, e alle cose trattate e decretate vien fatto
limitazione e correzione; il che stando, non si può vedere
come chiamarlo veramente concilio. Che in quello erano piú di
quaranta stipendiati dal pontefice, chi di trenta e chi sino di
sessanta scudi al mese; che altri erano intimiditi per lettere
de cardinali e altri curiali. Della corte si lamentavano che,
non potendo ella comportare la reforma, si facesse lecito di
calunniar e reprender e sindacare quello che era fatto per
servizio di Dio. Che avendo veduto come si era proceduto
contra una riforma necessaria e leggiera, non si poteva aspettare se non grave moto e contradizione, quando si trattasse
cosa toccante piú il vivo. Che doverebbe il pontefice almeno
raffrenare le parole degli appassionati, e mostrar in apparenzia,
poiché in fatti non voleva esser legato, che il concilio procedi con sinceritá e libertá.
Venne anco a parole Paolo Emilio Verallo, vescovo di Capaccio, col vescovo di Parigi in un congresso di molti vescovi, perché avendo questo biasmato il deliberare per pluralitá