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libro primo - capitolo vi 171


che l’ha fatta, non gli toccando è empia. Dio avere sempre esaltato li prencipi divoti della sede romana, capo di tutte le chiese: Constantino, li Teodosi e Carlo Magno; per il contrario avere punito quelli che non l’hanno rispettata. Ne sono esempi Anastasio, Maurizio, Costante II, Filippo, Leone e altri; ed Enrico IV per questo fu castigato dal proprio figlio, sí come fu anco Federigo II dal suo. E non solo li prencipi, ma le nazioni intiere sono per ciò state punite: li giudei per aver ucciso Cristo figliuolo di Dio, i greci per aver sprezzato in piú modi il suo vicario. Le qual cose egli debbe temere piú, perché ha origine da quelli imperatori li quali hanno recevuto piú onore dalla chiesa romana, che non hanno dato a lei. Lodarlo che desideri l’emendazione della Chiesa, ma avvertirlo anco di lasciare questo carico a chi Dio n’ha dato la cura. L’imperator essere ben ministro, ma non rettor e capo. Aggionse sé essere desideroso della riforma, e averlo dechiarato con l’intimazione del concilio fatta piú volte, e sempre che è comparsa scintilla di speranza che si potesse congregare; e quantunque sino allora senza effetto, nondimeno non aveva mancato del suo debito, desiderando molto, cosí per l’universale beneficio del cristianesimo come speciale della Germania, che ne ha maggior bisogno, il concilio, unico rimedio di provveder al tutto. Essere giá intimato, se ben per causa delle guerre differito a piú comodo tempo; però ad esso imperatore tocca aprire la strada che possi celebrarsi, col fare la pace, o differire la guerra mentre si trattano le cose della religione in concilio. Obedisca donque a’ comandamenti paterni, escluda dalle diete imperiali tutte le dispute della religione e le rimetti al pontefice, non faccia ordinazione de’ beni ecclesiastici, revochi le cose concesse alli rebelli della sede romana; altrimenti egli, per non mancar all’ufficio suo,

sará sforzato usare maggiore severitá con lui che non vorrebbe.