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210 capo xx.


e domani ci metteremo in cammino per giungere alla Durga.

Stavano per sdraiarsi sotto la tettoia, quando con loro grande sorpresa udirono i latrati d’un cane, che venivano dalla parte del bosco.

— I papuasi? chiese Cornelio, balzando in piedi.

— È impossibile! esclamò il capitano, afferrando il fucile e slanciandosi all’aperto.

Horn ed i tre giovanotti, assai inquieti, erano pure usciti portando con loro i fucili. I latrati continuarono, ad intervalli regolari, ma senza avvicinarsi.

— È impossibile che vi siano dai papuasi, ripetè il capitano, che non staccava gli sguardi dal bosco.

— Per quale motivo? chiese Cornelio.

— Perchè non hanno mai avuto cani, anzi non li conoscono.

— Pure sono latrati di cane, zio.

— Che ci sia qualche cacciatore europeo? chiese Wan-Horn.

— Qui, in mezzo a queste foreste, così lontane dai porti frequentati dalle navi?

— Qualche esploratore, signor Stael.

— Hum! Non ci credo, Wan-Horn.

— Ma come volete che vi sia un cane senza padrone?

— Sarà un cane, Horn?

— E cosa volete che sia? Questi sono abbaiamenti.

— Ma se fosse uno di quegli animali, a quest’ora sarebbe qui, mentre mi pare nè che s’avvicini, nè che s’allontani.

— È vero, capitano.

— Tenete pronte le armi e andiamo a spiegare questo mistero.

Tenendosi riparati dietro i cespugli, per non ricevere improvvisamente una volata di freccie avvelenate, raggiunsero il bosco che cominciava a diventare oscuro, essendo il sole prossimo al tramonto. La loro sorpresa raggiunse il colmo, udendo i latrati venire dall’alto.

— Tò!... esclamò Cornelio. Che abbiano legato un cane fra i rami degli alberi? Cosa ne dici, zio?

Il capitano, invece di rispondere, scoppiò in una fragorosa risata.