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42 capitolo sesto

CAPITOLO VI.

I condannati.

L’Inquisizione di Spagna ha avuto nei cinesi i suoi maestri. Questo popolo, che da duemila anni si è, per così dire, cristallizzato, senza fare un passo nella via della civiltà, fra le molte cose ha conservato anche oggidì i suoi supplizi.

Come torturavano venti secoli or sono, i giustizieri cinesi martirizzano i disgraziati prigionieri anche ora. Gli uomini erano così fatti allora: bricconi ve n’erano in quei tempi remoti e ve ne sono ancora: perchè cambiare? Ecco il ragionamento della magistratura cinese.

Una sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall’imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Istrumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finchè diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finchè le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati.

Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori.

Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani.

Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perchè il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri.

E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro.