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278 capitolo trentunesimo

gliati! E poi, dove sono le armi per difenderci? Non possediamo nemmeno un misero coltellino. —

Rokoff lasciò andare un pugno così formidabile sulla tavola, da far rovesciare tutti i vasi d’argento che la coprivano.

Udendo quel fracasso la porta si era bruscamente aperta e i quattro monaci, che dovevano aver ricevuto l’ordine di sorvegliarli, erano comparsi.

— Andate all’inferno! — gridò Rokoff con voce terribile, stendendo la destra.

I monaci, comprendendo più l’atto che le parole, s’inchinarono profondamente e uscirono.

— Hai veduto se vegliano su di noi? — chiese Fedoro.

— Con quattro pugni li atterro tutti, — rispose il cosacco.

— E poi?

— Dimmi un po’, Fedoro, su che cosa speri?

— Sul capitano.

— Ancora?

— Non ci lascerà.

— Può crederci annegati o fulminati.

— Verrà a cercare i nostri cadaveri.

— E se fosse morto anche lui? Hai pensato a questo?

— Non ne sono convinto.

— Ammettiamolo per un momento. Che cosa ci rimarrebbe da fare?

— Allora penseremo a fuggire.

— E intanto?

— Occupiamoci a preparare il sermone.

— Preferisco andare a coricarmi; non mi sono mai occupato del buddismo. Che cosa dirai?

— Non lo so ancora; ci penserò.

— Ispirati con un po’ d’acquavite.

— Un consiglio da cosacco, — disse Fedoro, ridendo.

— Allora bevi dell’acqua; io vado a dormire; ma prima farò un’esplorazione nel nostro appartamento e se trovo un buco ti dico che me ne vado subito. —

Il cosacco vuotò un altro bicchierino e si diresse verso una delle due porte che s’aprivano all’estremità della sala.

Si trovò in un corridoio altissimo che riceveva un po’ di luce da piccoli buchi rotondi, aperti nella vôlta e coperti da talco o da qualche altra materia trasparente, troppo alti però per poterli raggiungere e anche troppo stretti per lasciar passare un uomo.