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darci, e la Storia obliare di quel pubblico solenne atto, che del carattere gl'investiva di autorevoli, canonici ed inspirati Scribi della nazione?

Troppo veramente io m'arresto a confutare un'ipotesi siffattamente mancante della menoma apparenza di appoggio. Pure non tacerò, che l'autore di essa allega in suo favore il costante uso del sacro codice di parlare della persona di Mosè come d'una terza persona. Non sa e non può l'autore occultare a sè medesimo, quanta infirmata ne resti siffatta sua prova dall'esempio di Giulio Cesare e di Giuseppe Flavio, i quali nelle storie che scrissero pure in terza persona parlarono di sè. Ma un'osservazione ben diversa io trovo nell'argomento nostro da farsi, per la quale l'ipotesi del dotto Critico viene a ridursi in aperta contraddizione ed assurdità. Non è nella parto storica soltanto, che il sacro Testo faccia uso della terza persona in parlando dell'Arciprofeta: lo è egualmente nella parte precettiva, nella quale nulla di più frequente di questa formula וידבר ה׳ אל משה לאמר Dio parlò a Mosè. Se dunque nella parte legale questo modo di parlare nulla prova contro la comune, anzi universale credenza, che fa Mosè l'inspirato Estensore del Pentateuco, nulla egualmente provar puote nella parte storica.

Male poi si vorrebbe dal nostro Critico, dall'apparente disordine che trovar crede in alcune narrazioni del Pentateuco, inferire la verità della sua ipotesi; anche questa, egualmente che l'antecedente, essendo di quelle ragioni che provar volendo troppo, nulla provano. Imperocchè se reale disordine regna nelle narrazioni del Sacro Codice, non furono dunque quelle da autorevoli inspirati, e conseguentemente sensati Scribi estese. Rimane adunque, che apparente soltanto sia quel disordine, e da Dio stesso voluto; e quindi esser poterono quelle narrazioni, e lo furono difatto, scritte