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atto terzo | 63 |
Pol.) mi dolgo; ma il Cielo così volle; col mio mezzo ei si piacque di punirlo, come io da lui fui punito, divenendo strumento di tal castigo. Risponderò della sua morte. Addio anche una volta; convien che io sia crudele solo per essere umano; la prima sventura è questa, e molte altre ne rimangono.
Reg. Che debbo io fare?
Am. Nulla di quanto vi dico; guardatevene. Rientrate pure nel talamo dell’impudico re; narrategli quanto vi parlai, e ditegli che la mia follia non è vera, che io l’ostento. Bene sarà che gli facciate tal confidenza; perocchè qual’altra che una regina, bella, savia, modesta, vorrebbe nasconder così cari segreti a un mostro odioso e deforme? Chi il vorrebbe? No, andate; in onta del segreto e della ragione, aprite la gabbia sul tetto della casa, onde gli uccelli se n’escano; e simile alla scimia, entrate voi in essa per precipitare sul pavimento.
Reg. Siine sicuro; come è vero che la voce è un soffio, e che il soffio è necessario alla vita, io non avrò voce per annunziare quello che mi dicesti.
Am. Convien ch’io parta per l’Inghilterra, lo sapete?
Reg. Oimè! l’avevo obbliato. Sì, devi farlo.
Am. Sonovi lettere suggellate; e i miei due compagni di studio; di cui mi fiderei come del dente avvelenato del serpente, assunsero l’ufficio. Tocca ad essi l’aprirmi la via, e il condurmi al luogo ove mi aspetta la frode. Lasciamola compiersi. È cosa piacevole il vedere un minatore fulminato dallo scoppio da lui stesso ammannito. E sarà ben grave la sventura s’io non iscavo al disotto della loro mina, e non li faccio saltar fino alle nubi. Oh! è un piacer ben caro il prendere agli stessi loro lacci gli scellerati. — Costui (indicando Pol.) farà di me un becchino. Porterò il suo cadavere nella stanza attigua. Addio, mia madre. Ora questo savio consigliere è divenuto grave, segreto e taciturno, ei che per tutta la vita cianciò. Venite, signore, riesciamo ad un termine con voi. Buona notte, mia madre.
(escono da varie parti, Amleto trascinando Polonio)