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56 | amleto |
Guil. Ma non posso far render loro veruna armonia; non ne ho l’abitudine.
Am. Ebbene, vedete dunque qual essere dispregievole vorreste fare di me. Su di me voi vorreste suonare, facendo sembiante di conoscere i tuoni della mia anima, onde strapparmi dal cuore il mio segreto, per conoscermi come uno strumento, dalla nota più acuta alla più grave; e nullameno sono in questo piccolo organo mille voci dolcissime, che non sapete risvegliare. Pel Cielo! credeste ch’io potessi essere trattato con più facilità d’un flauto? Chiamatemi quell’istrumento che vi piacerà, ma da me non trarrete mai alcun suono. (entra Polonio) Iddio vi salvi, signore.
Pol. Principe, la regina vorrebbe parlarvi tosto.
Am. Vedete quella nube che simula quasi la forma di un camello?
Pol. Per la messa, è infatti come un camello.
Am. Parmi somigli anche a una donnola.
Pol. È come una donnola.
Am. E della balena pur ritrae.
Pol. Pur della balena.
Am. Verrò tosto da mia madre. — Costoro mi spingerebbero all’estremo della pazzia. — Verrò fra poco.
Pol. Così dirò. (esce)
Am. Fra poco è facile a dirsi. — Lasciatemi solo. (tutti escono) Ecco l’ora della notte consacrata ai neri malefizi; ecco l’ora in cui i sepolcri si spalancano, e l’inferno soffia i suoi veleni sul mondo. Ora potrei ber sangue fumante, e commettere orribili atti che il giorno puro, e santo, fremerebbe di vedere. — Vadasi da mia madre. — O mio cuore, non ismarrire la tua bontà ingenita; non lasciar entrare nel mio seno l’anima di Nerone. Ch’io sia crudele, ma non snaturato; siano i pugnali nelle mie parole, ma non nelle mie mani; la lingua mia e la mia anima dissimulino, e la di lei sentenza tuoni nella mia voce, senza che mai la mia volontà consenta ad eseguirla! (esce)
SCENA III.
Una stanza nello stesso palazzo.
Entrano il Re, Rosencrantz, e Guildensterno.
Re. Nol veggo con piacere; nè si può, senza pericolo per la nostra sicurezza, lasciar libero il campo alla sua follia; perciò ammanitevi. Vo tosto a far spedire i vostri dispacci, e partirà con