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ATTO TERZO



SCENA I.

Una piazza.

Entrano Mercuzio, Benvolio, Paggio e seguaci.

Benv. Te ne prego, caro Mercuzio, ritiriamoci. Il dì avvampa; i Capuleti uscirono di casa; e ove avessimo ad incontrarli, non eviteremmo una mischia. In questi ardori della state il sangue è infiammabile.

Merc. Tu mi rassembri un di coloro che, entrando in una taverna, depongono la spada sopra la tavola dicendo: Dio faccia ch’io non abbia bisogno di te; e al secondo bicchiere che tracannano, la sguainano contro ogni commensale.

Benv. Son io veramente quale dici?

Merc. Lo sei: e ti scorre per le vene un sangue bollente; e un nonnulla t’indispettisce e ti rende furioso.

Benv. E a qual effetto rammenti ciò?

Merc. Solo per dirti, che se vi fosse un altr’uomo della tua tempera, e che con lui ti scontrassi, vi sarebbero in breve due mortali di meno a questo mondo; perchè vi uccidereste l’un coll’altro. Tu, tu contenderesti con uno che avesse solo un pelo di più o di meno di te, o che spaccasse noci; non per altro che perchè tu hai gli occhi color di noce1. E quale sguardo, fuori del tuo, potrebbe mirare una tale contesa? La tua testa è ripiena di risse, come un uovo lo è di cibo; e nondimeno la dovrebb’esserne vacua, dopo tutte le guerre che ne sono uscite. Non volesti tu far lite con un uomo che tossiva lungo la via, solo perchè temevi che col tossire ti svegliasse un cane addormito? Non venisti quasi alle prese con un sartore perchè indossava un’abito nuovo prima delle feste di Pasqua? Non menasti le mani da sgherro per esserti abbattuto in chi si allacciava le scarpe nuove con una fettuccia scipata? E dopo ciò ardisci farla da precettore, da savio?

Benv. Se io fossi alacre ai litigi, come tu il di’, credo che mal mi si potesse guarentire un’ora di vita. (entrano Tebaldo e sgherri) Per la mia anima, ecco i Capuleti.

  1. Traducemmo alla lettera.