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116 | giulio cesare |
Br. Caio Ligario di cui mi disse Metello. Lucio, allontanati. — Ebbene, Ligario...
Lig. Accetta il saluto che ti porge una debole voce.
Br. Oh in quai tempi infermasti, valoroso Gaio!
Lig. Ogni mio male scomparirà, se Bruto vuole affidarmi una impresa d’onore.
Br. Tale è quella a cui intendo, Ligario, e di buon grado vorrei dividerla teco.
Lig. Per tutti gli Dei che adorano i Romani, eccomi mondo di ogni malore. Anima di Roma, generoso figlio di generoso padre, tu simile a un Dio, esorcizzasti il male dell’abbattuta mia anima! Ora comandami; son presto. Intraprenderò cose impossibili, e vincerò. Che deggio fare?
Br. Un’opera che renderà la salute ad alcuni uomini infermi.
Lig. Ma render non dovrà ancora infermi i sani?
Br. Sì, lo dovrà; e di ciò t’ammonirò lungo la via che dobbiam percorrere.
Lig. Precedimi; e col cuore invaso da una sacra fiamma ti seguirò in qual tu voglia impresa, lieto di tanto duce.
Br. Andianne.
(escono)
SCENA II.
Il palazzo dei Cesari.
Tuoni e lampi. Entra Cesare.
Ces. Nè il cielo nè la terra han requie questa notte. Tre volte Calfurnia nei suo sonno ha gridato. Ajuto! oh! uccidono Cesare! (verso una porta) Chi veglia quivi?
(entra un ufficiale)
Uff. Signore!
Ces. Va; imponi ai sacerdoti d’offrir tosto un sagrifizio, e riedi per dirmi quello che ne augurino.
Uff. Sarà fatto.
(esce; entra Calfurnia)
Calf. Che intendete fare, Cesare? Pensereste di uscire? No, non uscirete; oggi non uscirete.
Ces. Cesare uscirà. I pericoli che minacciaronmi non sostennero mai il mio aspetto: questa volta ancora dileguerannosi all’apparir di Cesare.
Calf. Cesare, non mai ho prestato fede ai presagi; ma oggi ebbero potenza d’atterrirmi. Senza arrestarci a quanto di strano abbiam udito e veduto, un uomo che qui dimora narra prodigii anche più orribili, che tutte le ascolte attestano. Una lionessa