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canto ventesimottavo. 411

32 E s’io credessi di piacere ancora
     Alla patria, a color che leggeranno,
     Come avvien chi per fama s’innamora;
     Io piglierei di questa istoria affanno,
     Però che al tutto chi ne scrive ignora;
     Ma se mie rime facultate aranno,
     Forse che il mondo ancor leggerà questo,
     Fin che l’ultimo dì fia manifesto.

33 Ma l’autor disopra, ov’io mi specchio,
     Parmi che creda, e forse crede il vero,
     Che, benchè fussi Rinaldo già vecchio,
     Avea l’animo ancor robusto e fiero;
     E quel suon d’Astarotte nello orecchio,
     Come disotto in quell’altro emispero,
     Erano e guerre e monarchie e regni;
     E ch’e’ passassi al fin d’Ercule i segni.

34 E perchè ancor di lui quell’Angiol disse:
     Ogni cosa esser può, quando Iddio vuole;
     Acciò che quelle gente convertisse,
     Ch’adoravan pianeti e vane fole:
     E se ancor vivo un giorno e’ riuscisse
     Dall’altra parte ove si lieva il sole,
     Come molti miracoli si vede,
     Qual maraviglia? chi più sa, men crede.

35 Non si dice egli ancor del Vangelista?
     Benchè ciò comparar par forse scelo:
     Ma dove il punto o il misterio consista
     Sallo Colui che fece il mondo e ’l cielo:
     Questa nostra mortal caduca vista
     Fasciata è sempre d’un oscuro velo,
     E spesso il vero scambia alla menzogna,
     Poi si risveglia, come fa chi sogna.

36 E del Danese, che ancor vivo sia,
     Perchè tutto può far chi fe’ natura,
     Dicono alcun, ma non la istoria mia;
     E che si truova in certa grotta oscura,
     E spesso armato a caval par che stia,
     Sì che, chi il vede, gli mette paura:
     Non so s’è vera opinione o vana;
     E così della spada Durlindana.