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canto ventesimosettimo. 351

27 Grandonio aveva trovato un bel giuoco:
     Egli aveva un baston come una trave,
     Tanto che l’arme e’ le stimava poco;
     E chi l’aspetta, per natura grave,
     Un vespro canta, che rimanea fioco
     E muto e sordo, e smarrisce la chiave;
     Ma tanto infine poi s’andò aggirando,
     Ch’un tratto pur l’ha ritrovato Orlando.

28 E gridò: Guar’ti, ghiotton maladetto,
     Che d’aver morto non ti vanterai
     Il mio più caro amico Sansonetto,
     Ma nello inferno la istoria dirai;
     Non mi potevi far maggior dispetto,
     Can, fi’ di can,5 tu te ne penterai:
     Volgiti a me; dunque tu vuoi fuggire?
     Cocchin pagliardo, e’ ti convien morire.

29 Grandonio, perchè Orlando avea veduto,
     Volse fuggir, chè morto giudicossi,
     E per paura ogni orgoglio è caduto;
     Ma innanzi a Vegliantin fuggir non puossi,
     Chè tigre, o pardo, anzi un uccel pennuto,
     Non credo a tempo a questa volta fossi:
     Parea che ’l suo signor quello intendessi,
     Che Sansonetto vendicar volessi.

30 E se fussi in quel punto lo Dio Marte
     Per aiutar Grandonio in terra sceso,
     Armato in sul caval da ogni parte,
     E’ non l’arebbe alla fine difeso,
     Nè per sua deità nè forza o arte:
     Tanto si tien di Sansonetto offeso
     Orlando, che la spada aveva stretta,
     Gridando forte ancor: Malfusso, aspetta.

31 E come il Saracin fermo si volse,
     Alzò la spada in alto quanto e’ puote,
     E sopra l’elmo a traverso gli colse,
     Tanto che tutte divide le gote
     E ’l petto e ’l corpo, onde l’anima sciolse;
     E poi la spada la sella percuote,
     Sì che pel mezzo ricise il cavallo;
     Ma Vegliantin fe’ questa volta fallo.