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canto ventesimoquinto. 289

214 Ma vogliam noi che Rinaldo cavalchi
     E non si facci però colezione,
     Benchè la fretta del cammin c’incalchi?
     Ben sai che no, chè non sare’ ragione.
     Disse Astarotte: Or su, qua tutti, scalchi;
     Apparecchiate la nostra magione.
     Disse Rinaldo: Che il becco s’immolli,
     E poi cantando ce n’andren satolli.

215 In questo in su ’n un prato è apparito
     Un padiglion che parea tutto d’oro,
     Ed ordinato subito un convito;
     Dunque da beffe non fanno costoro:
     Le mense acconce, e chi abbi servito,
     E tanti camerier già intorno loro,
     Con reverenze, ed abiti sì destri,
     Che parean tutti di nozze maestri.

216 Chi butta, alla lombarda il pannisello,
     Ed acqua lanfa è trovata alle mani;
     Posti a sedere, ecco giunto un piattello
     Di beccafichi e di grassi ortolani;
     Vedi che anticamente questo uccello
     Era, e non pur ne’ paesi toscani;
     E perchè qui non se ne crede altrove,
     Ambrosia o nèttar non s’invidia a Giove.

217 E come un dice gli ortolan, di botto
     Par che si lievi in tanta boria Prato;
     E però disse già il Piovano Arlotto
     Ch’avea più volte in su questo pensato,
     Perchè e’ sapeva e’ v’è misterio sotto,
     E finalmente or l’avea ritrovato:
     Cioè che Cristo a Maddalena apparve
     In ortolan, che buon sozio gli parve.

218 Vennon tante vivande in un baleno,
     Che mai convito si fe’ più solenne,
     E d’ogni cosa si missono in seno,
     E’ vi fu insino a’ pavon con le penne;
     I cavalli hanno dell’orzo e del fieno.
     Rinaldo quasi per le risa svenne,
     E dice: Questi mi paion miracoli;
     Facciam qui sei non che tre tabernacoli.13