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canto ventesimoquinto. 287

204 Disse Astarotte: E’ fia per certo: aspetta
     Tanto ch’io mandi insino in Etiopia;
     E porteratti uno spirto un’erbetta,
     Che può far questo, e non pure elitropia;11
     E basta sol ch’addosso te la metta,
     Chè così è la sua natura propia;
     E dove manca ragione o scienzia,
     Basta al savio veder la sperienzia.

205 E poi si volse a un certo scudiere,
     E disse: Va’ per questa erba, Milusse.
     Rinaldo guarda, e non seppe vedere
     Con chi quel parli, e paura gl’indusse.
     Disse Astarotte: Io intendo il tuo tacere:
     Non chiamerei, se qualcun non ci fusse:
     Sappi ch’io ho mille demon qui intorno,
     Che m’accompagnon di notte e di giorno.

206 Disse Rinaldo: Adunque io son nel gagno11a
     De’ diavoli! or su, qui siam, che fia?
     Disse Astarotte: Ognun fia buon compagno,
     O buon briccon, tu il vedrai per la via;
     Ed ogni dì qualche convito magno
     Vedrai sempre, e parata l’osteria,
     E chiederai tu stesso le vivande,
     Ch’io ti darò mangiare altro che ghiande.

207 Noi abbiam come voi, principe e duce
     Giù nell’inferno, e ’l primo è Belzebue;
     Chi una cosa, chi altra conduce,
     Ognuno attende alle faccende sue;
     Ma tutto a Belzebù poi si riduce,
     Perchè Lucifer religato fue
     Ultimo a tutti e nel centro più imo,
     Poi ch’egli intese esser nel ciel su primo.

208 E se vuoi pur che il ver presto ti dica,
     Non ti fidar di noi se non col pegno,
     Perchè alla vostra natura è nimica
     La nostra per invidia e per isdegno;
     Tu mi dai di portar questa fatica,
     Io fui già Serafin più di te degno;
     Or, per piacere al nostro Malagigi,
     Vedi ch’io fo di bastagio12 i servigi.