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canto ventesimoquinto. 259

64 Ma perchè formicon vecchio è di sorbo,
     Che non isbuca all’accetta o al martello,
     Tu potresti aspettar, Marsilio, il corbo,
     Chè sai ch’egli è molto malvagio uccello;
     Ed ha con teco l’animo sì torbo
     Ch’a Siragozza non verrebbe quello,
     Chè si tien della Spagna ingiuriato,
     Donde e’ pensava d’esser coronato.

65 Ma s’io tel conducessi in Roncisvalle?
     Io non ti chieggo, come Giuda, argento;
     Ma vuolsi queste cose ben pensalle,
     E misurar, non ch’una volta, cento;
     Chè questo è grave peso alle mie spalle:
     Nè vo’ che sia chiamato tradimento,
     Ch’io porto d’Ulivier nel viso il segno,
     E licito ogni cosa è per isdegno.

66 Quando Marsilio intese Ganellone
     Che va su per la fatta a buon cammino,
     Parvegli tempo a metter l’artimone
     E non calare or più il timon latino;
     E va per Bianciardino e Falserone
     Per un uscio segreto del giardino;
     E ritornò dove il malvagio conte
     Ganellone aspettava a quella fonte;

67 E replicò ciò che gli aveva detto,
     Però che a questi nulla era segreto;
     E come egli avea aperto il core e ’l petto,
     E molto ognun di lor si fece lieto.
     O traditor ribaldo e maladetto,
     Che non cura più Dio nè suo decreto!
     E disse: Tante te n’ho fatte omai,
     Cristo, che questa mi perdonerai.

68 L’anima mia dove ella debbe gire,
     Credo che sia l’alloggiamento or preso,
     E non può la sentenzia preterire;
     Ulivier tante volte m’ha offeso,
     Ch’io non intendo viver nè morire,
     Che merito per merito fia reso:
     E s’io non porto questa ingiuria meco,
     Contento me ne vo nel mondo cieco.