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canto ventesimoquarto. 235

129 Era stato un uom Carlo molto degno:
     Natura intese un uom pien di virtute,
     Di gran fortezza e di predito ingegno;
     Avea molte gran cose già vedute,
     Di nobil sangue tenuto gran regno;
     Ma non fur le sue opre cognosciute,
     E non ebbe la tuba di Lucano,
     Che sarebbe una Roma, un Carlo Mano.

130 Così faceva il duca di Baviera,
     A cui l’ultimo giorno è pur vicino;
     Ma perchè il suo valore allo estremo era,
     Facea come fa il lume a mattutino,
     E rompe ed urta e sbaraglia ogni schiera:
     Insino all’arcivescovo Turpino
     Uccide anch’egli, e faceva ogni male,
     Pur con la spada, non col pasturale.

131 Orlando poi che si partì d’Antea,
     Avea del sangue de’ Pagani un guazzo
     Fatto, che già verso il fiume correa,
     Tanti n’uccide di quel popol pazzo:
     Sempre in alto la spada si vedea,
     Sì che di morti copriva lo spazzo;
     E Vegliantino alle volte si serra,
     Ed urta e caccia assai gente per terra.

132 Bene è questo caval quel Vegliantino,
     Acciò che error non pigli chi m’ascolta,
     Che fu di Almonte degno Saracino;
     Così, quando Baiardo alcuna volta
     Si dice, non è falso il mio latino,
     Chè fia col signor lor la vita tolta:
     Ed è ragion, che la grazia del cielo
     Conservi ognun che conserva il Vangelo.

133 Gran cose il dì faceva Sicumoro,
     Il capitan ch’aveva lo stendardo,
     Ch’era fra tutti il primo barbassoro,
     E grida a’ Saracin: Popol gagliardo,
     Morte, sangue, vendetta, carne, a loro;
     Fatevi innanzi, ignun non sia codardo,
     Tagliate tutti costor come cani:
     E così rincorava i suoi Pagani.