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canto decimosesto. 333

42 Rispose Orlando: Noi sarem que’ frati,
     Che mangiando il migliaccio, l’un si cosse;
     L’altro gli vide gli occhi imbambolati,
     E domandò quel che la cagion fosse;
     Colui rispose: Noi siam due restati
     A mensa, e gli altri sono or per le fosse,
     Che trentatrè già fummo, e tu lo sai:
     Quand’io vi penso, io piango sempre mai.

43 Quell’altro, che vedea che lo ’ngannava,
     Finse di pianger, mostrando dolore,
     E disse a quel che di ciò domandava:
     Ed anco io piango, anzi mi scoppia il core,
     Che noi siam due restati; e sospirava,
     Ed è già l’uno all’altro traditore:
     Così mi par che facciam noi, Rinaldo:
     Chè nol di’ tu che ’l migliaccio era caldo?

44 Ma questo è altro caldo veramente.
     Rinaldo si volea pur ricoprire:
     Per Dio, cugin, ch’i’ sognavo al presente,
     Ch’un gran lion mi veniva assalire,
     Ond’io gridavo e chiamavo altra gente,
     E con Frusberta il volevo ferire;
     Forse che in sogno parlai per ventura,
     Tu mi destasti in su questa paura.

45 Dond’io ti son, ti prometto, obbligato,
     Però ch’i’ero tanto impaurito,
     Che mi pare esser di bocca cavato
     All’animal che m’aveva assalito.
     Rispose Orlando: Ah cugino impazzato,
     Or fussi sogno quel ch’i’ ho udito:
     Più su sta mona Luna, fratel mio!
     Guarda se in sogno dicevi com’io.

46 O vaga Antea, che ti feci io giammai?
     Dove m’hai tu lasciato, ove è la fede?
     Dove se’ ora, e quando tornerai?
     E non arai tu mai di me merzede,
     Che t’ho pur dato il cor, come tu sai,
     Che son tuo servo pur, come Amor vede,
     Che tante volte di me domandasti:
     Se’ tu colui che tu m’innamorasti?