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282 il morgante maggiore.

3 La mattina per tempo fu levato;
     L’oste i cavalli apparecchiati aveva,
     E da costor non volle esser pagato,
     Ma di sua povertà lor proffereva:
     Guata Rinaldo ed Ulivieri armato,
     E molta ammirazion seco prendeva,
     Chè gli pareva ognun fiero e gagliardo,
     E Vegliantin vagheggiava e Baiardo.

4 Rinaldo se n’andò verso il palazzo,
     Al re montava il baron valoroso:
     Era a vederlo tutto il popolazzo:
     Quivi sentiva un pianto doloroso
     Delle donzelle. Il re superbo e pazzo
     Vide costoro, e tutto disdegnoso:
     Chi siete voi, domandava Ulivieri,
     così presuntuosi cavalieri?

5 Rinaldo gli rispose: La risposta
     Farò io per costui che tu domandi.
     E poi che presso alla sedia s’accosta,
     Disse: Per certo di te fama spandi;
     Non so come il ciel facci tanta sosta,1
     Ch’a Belzebù giù in bocca non ti mandi;
     Della tua tirannia, can traditore,
     Dieci leghe lontan mi venne odore.

6 Era la sala piena di Pagani;
     Non gli rispose alcun, ch’avieno sdegno,
     E divorato l’arvien come cani
     Quel signor tristo, d’ogni morte degno:
     Rinaldo seguitò: Colle mie mani
     Per gastigarti sol, Vergante, vegno;
     Ciriffo sono, e per divino effetto
     Mi manda in questa parte Macometto.

7 Adultero, sfacciato, reo, ribaldo,
     Crudo tiranno, iniquo e scelerato,
     Nato di tristo, e di superchio caldo;
     Non può più il ciel patir tanto peccato,
     Nel qual tu se’ pure ostinato e saldo,
     Lussurioso, porco, svergognato,
     Poltron, gaglioffo, poltoniere e vile,
     Degno di star col ciacco nel porcile.