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canto decimoprimo. 219

4 Rinaldo non istette mai a udire
     Le mie ragion, ma furiando forte
     Mi minacciava di farmi morire:
     Io mi fuggi’, temendo della morte;
     Tu ti stai in festa, ed io con gran martire:
     E tanto tempo è pur ch’io fui in tua corte
     De’ tuo’ baroni, e del tuo gran consilio;
     Or m’hai scacciato e mandato in esilio.

5 Carlo lesse la lettera piangendo,
     Però che molto Ganellone amava:
     Ed ogni cosa per fermo tenendo
     Che gli scriveva, in drieto rimandava,
     Dicendo: Il tuo partir, Gan, non commendo,
     E la distanzia tua troppo mi grava;
     Torna a tua posta, e come caro amico,
     Come stato mi se’ pel tempo antico.

6 Gan ritornò, come scriveva Carlo;
     Carlo lo vide molto volentieri,
     E corse, come ’l vide, ad abbracciarlo:
     Ben sia tornato il mio Gan da Pontieri.
     Gan come Giuda in fronte usa baciarlo.
     Dicea Rinaldo al marchese Ulivieri:
     Vedi che Carlo consente che torni,
     E ritornianci pur ne’ primi giorni.

7 Io vo’ che ’l capo Carlo Man mi tagli,
     Se non è quel ch’a Caradoro ha scritto,
     E che lo ’mbasciador fece mandàgli:
     Non so come guardar lo può diritto;
     Ma metter lo potria in tai travagli,
     Che qualche volta piangerà poi afflitto.
     Così pareva al marchese ed Orlando;
     Tutta la corte ne vien mormorando.

8 Ma come avvien che sempre la fortuna
     Si diletta veder diverse cose,
     E sempre volge, come fa la luna;
     Mentre che Carlo par così si pose,
     Sanza più dubitar di cosa alcuna,
     Ma sanza spine godersi le rose,
     Ed ognidì fa giostre e torniamenti,
     E tutti i suoi baron vede contenti;