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vitù que’ di Samaria contrastavano a que’ di Gerusalemme l’autenticità dei loro codici? E qui non vengano le mie parole trafigurate; ch’io non ad altro tendo col mio discorso tranne a provare quanto sia, oltrechè doveroso, bisognevole l’acchetarsi ad una traduzione reputata canonica ed inalterabile. Dico adunque, e ciò può aver l’aria di paradosso, che a questa, che si cava dalla Vulgata, non può dirsi, come direbbesi d’ogni altro scritto che fosse passato per più d’un linguaggio, traduzione di traduzione. Nè la similitudine del liquore che travasato perde di sapore, o dell’albero che trapiantato in estraneo suolo traligna, regge menomamente. Un nuovo ordine di avvenimenti e di meraviglie riveste le novelle carte di quello splendore che aveano le antiche, e se altro è il linguaggio, altro ancora si è il popolo che lo adopera; se differenti sono l’espressioni, altri sono i paesi ne’ quali vengono pronunciate; se v’ha pure qualche cangiamento nelle immagini e ne’ pensieri, altri sono gli oggetti cui si riferiscono. È la verità che ha tradotto sè stessa per farsi intelligibile da un capo all’altro del mondo. Questo discorso mi condurrebbe a toccare argomenti più sublimi di quelli mi sono proposto, e che soli m’è conceduto di maneggiare. Ma non usciamo dei limiti della poesia.

La Vulgata ha dato un nuovo colore alla poesia biblica, colore formato delle stesse materie, ma diversamente impastate, se mi è lecita que-