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piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
pur dell’avida belva il pianto oscura.
Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
20can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
malinconico in terra? o sotto l’ala
piegar la testa un povero augelletto
in gabbia d’òr? Dai perfidi spiragli
il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda.
25e la perduta libertá sospira.
Tutte piangon le cose, e i petti affanna
ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
pellegrini del mondo, a questa Roma,
non per recar nelle native terre
30qualche santo rosario od amuleto,
ma per chinarvi a interrogar la spoglia
dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
colle rugiade dell’eterna luna
qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
35del Palatin la capinera al vento
Lineerá la sua nota.
Or io mi levo
sulle alture del Celio, e mentre l’óra
nei sacri mirti, come fa, si tace,
pellegrini del mondo, a voi favello:
40questa Roma di Dardano per molti
rischi di terra e mar, seco ha recato
colle ceneri d’ilio il suo destino.
Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
e qua crebbe e regnò. L’arido bruco
45nel novilunio suo non altrimenti
fatto è farfalla. Un’intima possanza
trasfigura le cose, e dalla morte
nasce la vita, ed ambedue compagne