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XCVII

GELSO

Mi ricordo d’un gelso (e il veggio ancora
rimpetto a’ lari miei), nelle cui fronde
si risvegliava, a salutar l’aurora,
uno stormo di passere gioconde.
Quel gelso è la mia mente, in cui s’asconde
lo stuol delle memorie; e, quando infiora
l’alba d’un raggio gli alberi e le gronde,
quelle arcane dormenti escono fuora.
E van cantando a la rugiada e al sole :
ma non tutte, non tutte han gaio il trillo ;
anzi qualcuna senza fin si dole.
E canta si, ma desolato è il canto:
ond’ io dentro di me la risigillo,
e le fan l’altre intorno un lungo pianto.

XCVIII

NOTTE

Chiusa è la stanza; il lumicino è spento;
tacita è l’ombra; e qui pensoso io giaccio.
L’andar dell’oriuolo, altro non sento;
e cadrò presto a’ vani sogni in braccio.
Saprá darmi letizia o turbamento
il fantastico mondo, a cui m’afTaccio?
e il cardellino o la procella o il vento
mi solverá da l’incantato laccio?
Vedrò il domani e i miei? vedrò la stanza
rivisitata da l’ambrosia luce?
Vegli su me la caritá de’ numi.
Sebben, dolce sarebbe oltr’ogni usanza,
dentro un sogno d’amor che al ciel conduce,
chiudere al tempo e non aprir piú i lumi.