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LXXXV

NELL’ORA

Nell’ora che il soave Espero ascende
e di molle candor l’etere imbianca,
e dal torbido mondo a sé si rende
la soletta pensosa anima stanca,
sciamo: — In che parte, o mie nomadi tende,
avrete posa un di libera e franca? —
E di lá da quel dolce astro che splende
sento la patria, che qua giú mi manca.
Che di lá da quel dolce astro hanno sede
de’ miei cari gli spirti e quelle muse,
che a me lasso, sin qui, stettero in fede;
e la mia pace or piú che la mia fama,
fuor da queste maligne ombre confuse,
di lá da quel romito astro mi chiama.

LXXXVI

CORSIERO

Il tempo, a foggia di corsier, ci fura
da la cuna, e ci porta al negro avello:
e il tratto della via che manco dura,
l’allegra gioventú, certo è il piú bello.
Segue agli ameni di tedio e paura,
o ascose furie che ci dan martello,
o quel tacito andar per notte oscura,
stanchi, senza veder segno d’ostello.
Quasi al mio fin mi giova ir di galoppo,
e giá tolto d’arcioni esser vorrei
pria che scendan su me gli ultimi verni.
Nocque a tutti nel mondo il viver troppo;
e sin credo che noccia anco agli dèi,
lá nel gelido ciel, vivere eterni.