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LXXXIII

NAIADE

Non gemma oriental fregia il tuo volto,
ninfa, che nulla senti e nulla vedi,
marmorea ninfa, che ad albergo hai tolto
quete brune muscose eremi sedi.
Di roseo lume è il tuo bel corpo avvolto;
carezzati da fresca onda i tuoi piedi;
te chiaman l'aure; e da stupor son còlto,
se giá le chiome ai zeffiri non cedi.
Te venturosa, perché sei di sasso,
né udir t’incontra né parlar d’amore,
scelerato ludibrio in questa riva!
Anch’io, beata, d’ascoltar son lasso
ciò che turba la mente e affanna il core.
E piacenti dir questo a te non viva.

LXXXIV

A MIO PADRE

Con quel dolor che a ricordar si sente,
e a far parole fra un sepolto e un vivo,
ombra del padre mio, come sovente
mi stai dinanzi quand’io penso e scrivo!
Tu mi spargi dal volto un chiaror divo,
che fa il seren nella mia stanca mente;
tu mi piangi pei cari onde son privo,
giá teco ascesi a la beata gente.
Io penso al tenue lare, a la nemica
fortuna nostra, a la gentil costanza
e a l’umil gloria della tua fatica.
E voci ascolto d’immortai consiglio,
e in te mi specchio; e con la tua speranza,
ombra soave, il mio cantmin ripiglio.