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LXVII
GLI SCHIAVI
Mentre aspettan le tigri, e la vorace
fame di Claudio espian caprii lucani,
nelle custodie il cantabro Cinace
beve a la Morte; e morirá domani.
Insensata in un canto arde gli arcani
rami delle melisse Helda la trace;
e ai piè gli siede, e con le rosee mani
sparse per terra, lacrimando, tace.
Indi solleva la pensosa faccia;
e, terso il pianto, a non parer codarda,
tutta s’avventa nelle care braccia.
Dietro le ondeggia la disciolta chioma;
pallida, muta, disperata il guarda;
poi mette un urlo, e maladice a Roma.
LXVIII
A UNA STRANIERA
Quando tu sogni e nel silenzio è spento
il pispiglio d’ogni aura e d’ogni fronda,
vedi tu mai nel ciel che ti circonda
un vermiglio di spade ondeggiamento?
odi tu mai sotterra, odi nel vento,
di galoppi un vasta eco profonda?
Sono i fieri tuoi padri, erula bionda,
che sopra Roma fulminati io sento.
Non ti turbar. Tu rivedrai domani
Tare sovverse, e in cima al Palatino
picchierai forse le superbe mani.
Non attender però ch’io ti rampogni,
bella inimica. In ciel tesse il destino
i natali e la morte a’ piú gran sogni.