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XXXVII

REGNO

Sul pauroso mar l’occhio si stende
da la tacita rada, e il cor non trema:
ma. come il più s’innoltra, e il vespro scende,
e a mano a mano che la terra scema,
grandeggia il cielo e l’acqua, e piú non splende
il fanal della costa, una suprema
sconfinata tristezza al cor s’apprende,
né sa ben dir qual nova ombra lo prema.
Forse, o povero cor, tutta ti appare
la picciolezza tua. verme perduto
tra ’l ciel profondo e l’infinito mare!
Pur tu domini Tacque e imperi ai venti.
Povero cor, qual regrío hai ricevuto,
se piú sei mesto ove piú re ti senti!

XXXVIII

IL DI MEN TRISTE

Eccoti di Merlin l’arca vermiglia:
chiedi ’l futuro di, se te ne cale.
I’so che il saper troppo in terra è male,
e ciò del dimandar mi disconsiglia.
A quel ch’avviene i’ so che s’assimiglia
quel ch’avverrá: né preconoscer vale
ad evitar. Fortuna orba ci piglia
in crudel signoria dal di nataie.
L’oggi e Pier che giá sai tollera in pace:
né raffrettar del tuo dimán l’acquisto,
cui non saputo la speranza infiora.
Chi troppo sa, nell’ampio mondo giace
nudo di desiderio. Il di mcn tristo
è pur sempre, cred’io, quel che s’ignora.
G. Prati, Poesia, 11.