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trasse Alighier dall’ispide
guance il dolor piú vero,
e poi dall’arco i numeri
220dell’immortai pensiero,
tu pur sei tetro! e il margine
però di fiori hai cinto.
La bara dell’estinto
sparsa è di fior cosi.
225È parricida l’alito
dei violenti, il credi,
fiume gentil. Né all’umide
or piú vagar mi vedi
stelle nascenti, o attendere
230cogli occhi inebriati
gli splendidi e rosati
tramonti del tuo ciel.
Né mi vedrai. La libera
mia veritá dispiacque.
235Meglio fidar le súbite
ire alle nubi e all’acque,
meglio che all’uom. Difficile
pei coraggiosi è il giorno
che ruota il pazzo intorno
240la daga od il flagel.
Savi tu cerchi, o misera
Italia mia; né trovi
che rotte plebi, e cupide
rabbie, e tumulti novi:
245e in cenci da postribolo,
tra fescennine mazze,
tratta per Lebbre piazze
la casta libertá.