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canto terzo 35

e gioi del rifiuto, e insiem rimorso
di quel gaudio sentì.
Misera! il fato
giá ti chiuse ogni via, tranne quell’una,
che d’abisso in abisso ti sprofonda.
195Povera foglia alla bufera in preda!
— Dunque tu parti!... Anche per me saluta,
Arrigo mio, quei colli, e le dilette
rive del Tagliamento, e quei beati
campi. Ma lungo il tuo restar non sia. —
200E di vera tristezza eran parole.
— Noi ci vedremo in pochi dì. Scrivetemi,
Edmenegarda !
— Arrigo mio, m’è nuovo
questo tuo far. Perché nell'abbracciarmi
non mi chiami del «tu»? Tetra una nube
205ti sta sul volto, né stanotte il sonno
ti consolò. Che hai?
— Nulla, mia cara.
Prendi cura di te, pensami e scrivi.
Addio, fanciulli! —
Al sen tutti li strinse
e si partìa. Ma la rinata spina
210laceravagli il cor. S’era ingannato?...
o quella notte Edmenegarda in sogno
proferse un nome?... E ancor, per quelle sale
passando, acuto un brivido lo colse.
— Quanto son vile! Non è ver. Sì, vile...
215sì, demente son io. —
Ma, ad ogni passo
verso la ripa, una gelata mano
sentia calar sul divampante petto,
a respingerlo addietro. Egli rauna
ogni sua forza, quell’incubo orrendo
220per debellar. Né vinta era la pugna.
— Tornarmen’io! Pormi in agguato! All’arti