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DELLA RAGIONE DI STATO

Tyrannus suam, rex subditorum utilitatem spectat.

Aristotele.

Chi mai non solcò il mare, non presume di saper l’arte di navigare; chi non diede opera alla musica, non fa professione d’intender le note e i tuoni. Ma pochi sono quegli uomini i quali, benché non governasser mai, non pretendano di saper dar giudicio della amministrazione delle republiche e degli imperi. Tale è che non fu mai nel foro e non vide mai né leggi né statuti, e nondimeno ha opinione di poter meglio decidere le liti che non fanno i giudici piú scienziati e piú vecchi. Altri che non pose mai piede in curia, né mai lesse politica né istoria, si crede d’essere atto a consultar del pari delle publiche bisogne coi senatori e coi principi. E quindi nasce che non pure i consiglieri nelle corti e i dottori nelle scuole, ma i barbieri eziandio e gli altri piú vili artefici nelle boteghe e nei ritrovi loro discorrono e questionano della ragione di stato e si dánno a credere di conoscere quali cose si facciano per ragione di stato e quali no.

Tuttavia, niuno fin ora anco degli uomini piú saggi e piú letterati ha saputo, a giudicio mio, ben dichiarare che cosa sia ragione di stato e in che consista. Chi la confonde con la politica; chi la fa una parte di quella, e poi non sa dire com’ella sia dal tutto differente; chi la pone nel contravenire alle leggi; chi con le leggi a pieno l’accorda; chi la fonda in tutto sullo interesse e sulla ingiustizia; chi dall’onestá non la scompagna mai.