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A CHI LEGGE


Facit indignatio versum.

Juv., Sat. I.


Ecco, o tu che leggi, un libro figlio di sdegno. Hannomelo acceso nella penna certi sacciutelli, i quali tratto tratto questionando meco sopra di materie o sia politiche o morali, posti al muro da fortezza di argomenti, non avendo onde riscuotersi con la ragione, sogliono ricorrere all’autoritá di questo o quello autore; e con citar in voce tonda e sesquipedal gesto un passo di Tucidide o di Tacito o di Seneca, che in vista paia ripugnante alla mia opinione, quindi, quasi vincitori della lite, esultano, si ringalluzziscono, si applaudono, e (ch’è peggio) hanno giudici propizi presso i circostanti: i quali, caso che ancor io non abbia tostamente in pronto altra sentenza di autor non men classico da rimbeccare il mio avversario, stimano che a tender vincitore debba piú valere uno sproposito sentenzioso detto in latino, che la veritá, fondata su ragioni intrinseche, detta in volgare. Io perciò da questo torto, che mi fanno alcuni pochi, appellandomi al giudizio universale, che non suole errare, ho preso in questi miei discorsi a mostrar due cose. L’una, che non tutte le sentenze degli autori, anche di primo bussolo, son vere, o sia perché essi sonosi ingannati, o sia perché le han poste in bocca di alcun personaggio, che per ignoranza o passione si sia ingannato. L’altra, che può esser che sian vere nell’occasion particolare ove le adduce lo scrittore,

Politici e moralisti del Seicento. 12