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i - poemetti 159



     Non piangon piú l’Eliadi
su l’inesperto auriga,
55ch’alto agitò gli alipedi
della febea quadriga.

     Perché d’Isotta scherzino
sul colmo sen nevoso,
le lucid’ambre stillano
60dal cortice rugoso.

     Ami domán chi libero
fu da’ bei lacci ognora,
e chi d’Amor fu ligio
ami domane ancora.

     65Amor l’elmetto a togliere
va della guerra al nume,
né trema al cenno orribile
che su vi fan le piume.

     Il picciol dio col tenero
70piede talor lo calca,
o con maligna audacia
la lunga asta cavalca.

     Quegli, de l’asta immemore
e de la fida spada,
75del vincitor Cupidine
al folleggiar non bada:

     mezzo supin di Venere
nel molle grembo ei giace;
tutta negli occhi cupidi
80gli arde d’Amor la face.

     Han posa intanto i popoli
e i muri ardui e le porte,
intorno a cui non odesi
grave ulular la Morte.