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i - poemetti 151

maravigliando, Insubria tutta, e seco
245dicean le genti in fatal lega unite:
— Risorge Utica, e spira in cento petti
l’indomita di Cato anima atroce?
Abbiano pace i vinti. Assai di sangue
ne costò la vittoria, e pingui intorno
250ne son le glebe, e ne rosseggian l’acque. —
     Né men dolente il difensor di Vico
volgea lo sguardo a’ patri tetti, al porto,
e delle torri alle ventose cime,
su cui l’ostili insegne in larghi giri
255sventolavano in mezzo a densa selva
d’aste, di scudi e di fiammanti elmetti;
né speme v’era di soccorso. Alfine,
un ramo alzando il vincitor d’ulivo,
la pace offerse, e dettò patti e leggi.
260Ma patti e giuri ei non serbò. La ròcca
invase allor senza contrasto, ed ambe
di catena servil gravò le braccia,
che in lieto aspetto distendea pel lido
la lunata cittade al Lario amico.
265Né giá, com’eran le promesse, il forte
vallo e le torri diroccò soltanto,
ma i tetti ancora, e i delubri alti e i prischi
del roman nome monumenti accese
con sacrilega face, e la schernita
270fede sull’ali sen lagnò del vento.
Cade l’alta cittá, cade la bella
dominatrice del bifronte Lario
misera preda di nemiche fiamme.
Arde Vico inaccesso, ardon le torri
275di Coloniola e i templi, e di Fabato
il portico, e di Giulio arde l’arena.
Non gli ombrosi recessi, il bagno aprico,
non l’atrio di Caninio, ove godea
fra zefiri loquaci ire a diporto