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i - poemetti 127

la densitá si scema, e scema il moto.
Tu ben t’apponi, che, se men veloce
345fosse Mercurio a rivoltar sull’asse,
o se men densa di sue parti avesse
la marmorea testura, in breve fora
arso e disciolto dal propinquo ardore.
Ma quale incrudelir d’alpine nevi
350stagion dovrebbe, e d’iperboreo ghiaccio
nell’orride contrade di Saturno,
se di maggior crassizie il Fabbro eterno
l’avesse cinto, e se col lungo giorno,
che gli fanno goder sue tarde ruote,
355non ristorasse il mal che lo flagella
nel cerchio estremo sí lontan dal sole?
Pur cosí dotto magistero a nulla
giovar potrebbe se d’alpestri massi,
e di non abitate ispide terre,
360fossero que’ pianeti un’aspra mole.
Dimmi: che fan le quattro lune intorno
al vastissimo Giove, e le altre cinque
rischiaratrici del lento Saturno
col sottil giro del capace anello,
365ond’egli va superbo? Invan Natura
nulla creò, né della cheta notte
ad ingemmar soltanto il fosco velo
d’immensa mole fe’ pianeti, e mille
nel liquido seren lampade accese,
370e il corso volle armonizzarne e l’ore.
Luce maggior di veritá foriera
meco sul grave ragionar ti spanda
il fiorentin che a’ non tentati cieli
coll’ottica sua canna assalto diede,
375e nella notte ne spiò gli arcani.
A gara dopo lui cento salîro
d’Urania figli all’ardue torri in vetta,
e d’argolico scudo o di febèa