Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 286 — |
chio luminoso, colà stesso dove ebbi scôrto le traccie lievissime d’un’ombra. Ma l’ombra più non vi era; ond’io, allargatomisi più il cuore, vôlsi gli sguardi verso la pallida e rigida figura distesa sul letto. E allora sentii fondersi in me mille e mille rimembranze di Ligeia; — e sentii rifluirmi al cuore, con la ruinosa violenza del mar in tempesta, tutto quel dolore intenso, sovrumano, ineffabile da me provato allora che l’ebbi vista, essa, essa pure, nel suo sudario. E la notte saliva e saliva; ed io sempre là, là, — il cuor gonfio di pensieri amarissimi, il cui oggetto, essa, essa, il mio unico, il mio supremo amore: ed io aveva gli occhi là, sempre là, chiovati sul cadavere di Rowena.
Poteva essere la mezzanotte, forse un po’ prima e forse un po’ dopo (avvegnach’io non avessi osservato il tempo), allor che un singhiozzo leggiero, leggierissimo, ma distintissimo, mi trasse di soprassalto da quel cupo fantasticare. Sentii che veniva dal letto d’ebano, — dal letto di morte. Fu un’angoscia di superstizioso terrore, tesi l’orecchio; e il rumore non si fe’ più sentire. Con uno sforzo intenso degli occhi procurai di scuoprire un moto qualunque nel cadavere, ma non m’accorsi di nulla. Eppure, sì, eppure era stato impossibile ch’io mi fossi ingannato. Il romore, debole invero, io l’aveva inteso, e lo spirito era assai ben desto in me, e il romore, lo ripeto, io l’aveva effettivamente sentito. Con una risolutezza e pertinacia intentissime io continuai ad osservare il cadavere; i miei occhi erano su lui, ed io era magneticamente fisso al cadavere. Volsero alcuni minuti in solenne silenzio di tomba, senza che alcun lieve incidente versasse un po’ di luce su questo mistero. A lungo