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venni nell’oceano, nella caduta d’una meteora; e lo sentii negli sguardi di qualche vegliardo venerando.

Vi ha su in cielo una o due stelle (in ispecie una della sesta grandezza, doppia e cangiante, che scorgesi sempre vicino alla grande stella della Lira), le quali, osservate col telescopio, m’hanno sempre desto un sentimento analogo. E similmente me ne sentii come ripieno da certi suoni di strumenti a corde, e talvolta eziandio da certi passi delle mie letture. E tra innumeri esempi, io mi rammento benissimo d’una simile cosa, di un punto sì fatto, rilevati in un libro di Giuseppe Glanwill, donde (forse semplicemente a causa della sua bizzaria — chi lo sa? — ) mi venne sempre ispirato il medesimo sentimento: ecco tal passo: «E colà dentro vi è la volontà, che certo non muore. E chi mai conosce i misteri della volontà, chi la sua forza? Avvegnachè Iddio non sia che una volontà grande, infinita che penetra l’universo e lo comprende per virtù di sua stessa intensità. Nè l’uomo è inferiore agli angeli, nè vien domo dalla stessa morte che per difettò della povera sua volontà.»

Fu col volger del tempo e per ragion di persistenti, successivi pensieri, ch’io riuscii a determinare certo lontano rapporto tra questo passo del filosofo inglese e una parte del carattere di Ligeia. Quell’intensità singolare nel pensiero, nell’azione, nella parola, era forse in essa il risultamento od almeno l’indizio di quella gigantesca potenza di volizione che, nel durare dei nostri legami, avrebbe potuto dare altre e più positive prove della sua esistenza. Di tutte le donne da